una nuova vita

capitolo 12

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  1. lady_crossbow
     
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    Capitolo 12 : Punto e a capo



    Corri, corri. Non fermarti. I miei piedi scattavano sotto di me, quasi si fossero animati di vita propria. La ricca vegetazione sfumava al mio passaggio. Il paesaggio era infinito, uguale a se stesso. Pareva di esser sempre al punto di partenza. Non sapevo dove andare, non avevo un minimo piano né una fottuta idea di quello che avrei dovuto fare. La mia coscienza continuava a ripetermi di scappare, fuggire dall’orrore a cui il destino mi aveva legato. Scacciai le immagini dalla mia mente, non volevo ripercorrere quei momenti. I capelli di Hershel si intrecciavano come seta alle mie dita sporche di sangue. Avrei voluto chiudere gli occhi, dimenticare tutto. Sebbene avessi fra le mani la sua testa, non avevo il coraggio di guardarla. Mi muovevo frettolosa come una lepre in fuga da una volpe selvatica. Dovevo trovare un riparo, un rifugio, ma il più lontano possibile. Mi chiesi per quale dannato motivo il gruppo non si fosse creato un piano di fuga o almeno un luogo d’incontro nel caso ci fossimo divisi. Mi pareva strano che Rick non ci avesse pensato, scrupoloso com’era. Mi venne il dubbio. Il dubbio che lo sceriffo avesse davvero pensato di farcela, di sconfiggere l’uomo nero. Non poteva esser stato così superbo. Ma d’altronde, non lo conoscevo affatto. Non conoscevo nessuno di loro a dirla tutta. Mi ero infilata in uno stupido scontro, mi ero schierata dalla loro parte, poiché in fondo mi ero sentita in colpa, responsabile. Ed oltretutto, mi ero affezionata, in un così poco tempo da rimaner stupita io stessa. Era inutile rimuginare su ciò che era avvenuto, sulle mie scelte, si trattava ormai del passato. Niente poteva cambiare. Percepii i polmoni stramazzare, chiedermi pietà. Mi fermai, accorgendomi di avere il fiato corto. Annaspavo come emersa da un’apnea prolungata. Appoggiata ad un albero, mi guardai intorno. Non scorsi alcun putrefatto. Sull’albero di fronte, notai una grossa x rossa. Qualcuno aveva segnato un percorso. Probabilmente, mi avrebbe orientato verso qualche rifugio o baita. Era una buona zona per la caccia, quindi non era da escludere l’ipotesi che vi potesse essere qualche edificio per i cacciatori o addirittura per i boyscout. Ne avevo incontrati molti. Camminai un poco nelle vicinanze, speranzosa di trovare nuovamente quel simbolo. E fu così. Speravo inoltre che non si trovasse troppo lontano. Il mio corpo reagiva a fatica ai miei ordini. Ero spossata, stanca, ferita. Mi reggevo ancora in piedi grazie esclusivamente alla determinazione. Di quei tempi non potevo permettermi di mollare. Arrendersi portava solo ad una cosa, significava scegliere la morte. Dopo un’oretta circa, però, tutti i buoni propositi crollarono ed io con loro. Mi trovai sdraiata a terra col fiatone. Il sole brillava, irradiando con quei suoi bollenti raggi l’area circostante. Avrei preferito del venticello fresco. Per quanto mi sforzarsi di pensare ad altro, la mia mente continuava a trasportarmi nei miei effettivi sentimenti. Temevo per la vita degli altri. Non sapevo chi si era salvato, se qualcuno era ferito, se ce l’avrebbero fatta. Mille domande mi graffiavano dall’interno. Ero di nuovo sola. Anzi, in compagnia della testa di un uomo a cui avevo voluto bene. Un uomo che non si era mai mostrato ostile nei miei confronti, un uomo che si comportava quasi come un padre. - I buoni in questo mondo non possono sopravvivere – l’ho sentito dire così tante volte. Eppure non ci ho mai voluto credere. Ma sapevo che era vero, tutto ciò che avevo vissuto lo dimostrava. Le persone buone d’animo cadevano una dietro l’altra, come una pila di domino. Quel gruppo si stava frantumando. Era arrivato anche il loro momento. Un lupo solitario, disdegnoso di un nuovo branco. Ero tornata questo. Una sopravvissuta che avrebbe dovuto contare solo su se stessa, cosa che, tuttavia, non mi era risultata difficile in passato, ma il problema era che avevo nuovamente fatto l’abitudine ad avere delle persone vicine. Il foro di proiettile sulla gamba si destò, portando con sé dolore e fastidio. Daryl fece capolino nel mio pensiero inconscio, ricordandomi che egli avrebbe voluto sbrindellarmi completamente il jeans per controllare che il bossolo fosse fuoriuscito o meno. Ma non avevo nessun buco sul retro della coscia, ciò significava che l’oggetto si trovava ancora indisturbato fra la mia carne. Avrei dovuto estrarlo, ma prima volevo giungere a quel riparo tanto desiderato, e magari circondarmi di quel silenzio, rendendomi davvero conto di quello che era accaduto. Certo, ero lucida ed avevo ben chiara tutta la vicenda, ma questa ancora non era stata elaborata. Dopotutto non ne avevo avuto il tempo e finchè fossi stata occupata, concentrata sul non restare all’aperto, non l’avrei affrontata del tutto. Sapevo che quando mi sarei ritrovata in quella baita, dopo essermi chiusa alle spalle la porta, lì, lì sarei crollata. Quand’ebbi recuperato le poche forze che avevo ancora in corpo, proseguii in quella fitta radura. La balestra dondolava sulla mia schiena, oscillando al ritmo dei miei passi abbozzati. Non dava l’idea di essere un oggetto pesante, eppure stava cominciando a farsi sentire fin troppo. Ma forse si trattava solo di un disperato tentativo del mio corpo di chiedere pietà. La testa lottava con me, tentando in tutti i modi di proiettarmi i loro volti. Rick, Beth, Glenn, Maggie, Carol, Carl, Judith, Michonne e Daryl. Scacciai quelle immagini, ma sapevo che non avrei primeggiato a lungo. Dovevo comunque mettermi l’anima in pace, potevano essere morti ed anche se fossero stati in vita, non li avrei mai più rivisti. Quella dannata balestra avrebbe però riaperto questa profonda cicatrice. Forse avrei dovuto disfarmene. D’un tratto vidi in lontananza una decina di putridi, occupati a gironzolare affamati in cerca di qualche spuntino fresco. Feci qualche passo indietro, attenta a non produrre alcun rumore. Forse avevo la possibilità di evitarli, non si erano ancora accorti della mia presenza. Ma ero così concentrata su quelli da non accorgermi di un putrefatto molto vicino, che mi assalì alle spalle. D’istinto calciai sul suo ginocchio, obbligandolo a cadere in avanti. Il tonfo allarmò i suoi compagni. Merda. Arretrai immediatamente. Non potevo contare su un’agile corsa che mi avrebbe permesso di restare in vita. Le mie gambe erano pesanti come cemento. Dovevo trovare una soluzione al più presto, prima che quegli esseri mi raggiungessero. Mi guardai intorno nella speranza di un’illuminazione improvvisa. Poggiai la testa di Hersh a terra, non l’avrebbero neanche notata, dopotutto aveva già subito il processo di trasformazione, e mi aggrappai ad un robusto ramo. Scalai in fretta un albero massiccio, arrampicandomi con non molta grazia. Gli zombie si accalcarono a quel fusto, allungando le braccia marce in alto, come se potessero agguantarmi. Mi sentivo un gatto accerchiato da un branco di cani. Estrassi il bowie e, porgendomi un poco, trinciai quei dannati arti. In questo modo non avrebbero più potuto graffiarmi, permettendomi di espormi maggiormente. Mi calai ancora e trafissi uno ad uno quei crani fetidi. Scesi, atterrando sui loro resti puzzolenti. Notai un putrefatto arrancare zoppicando nella mia direzione. Impugnai la balestra e scoccai. Lo colpii ad un spalla. Non era come tirare con l’arco. Al secondo tentativo, l’essere si accasciò. Dopo aver recuperato e pulito i dardi sul jeans, tornai al mucchio di vaganti ed affettai il loro addome. Non potevo rischiare di imbattermi in un altro branco in queste condizioni. Ero sfinita, mi reggevo in piedi per miracolo. Mi imbrattai delle loro viscere. Se avessi avuto delle corde avrei potuto emulare Michonne. Ma mi accontentai. Uno dei cadaveri indossava uno zainetto trucido e sporco in pelle nera. Mio. Lo sfilai dal suo vecchio proprietario e ne controllai l’interno. Vi trovai un diario, una bottiglia d’acqua, due vasetti di pesche sciroppate ed una torcia. Un ricco bottino. Non mi erano mai piaciute le pesche, ma stavolta non avrei obiettato. Era cibo, punto. Ero curiosa di leggere il diario, ma sapevo che mi avrebbe fatto male. D’altronde ero una ragazza emotiva, la quale si trovava anche in un momento abbastanza critico, e non solo, leggere quelle pagine inchiostrate avrebbe comportato ulteriore dispiacere per quell’uomo deceduto. La bottiglietta d’acqua era piena fino all’orlo, ma non avevo la certezza che questa fosse del tutto non infetta. L’avrei prima bollita. Giusto per essere più sicura. Prima di indossare lo zainetto, vi inserii anche la testa del pastore, lasciando così le mani libere. Sporca e puzzolente, tornai alla mia ricerca. Attraversai quella boscaglia, passeggiando spesso accanto ai putridi. Superai un corso d’acqua, dove mi rinfrescai, e seguii il percorso segnalato. Non seppi quantificare quanto tempo fosse passato, ma finalmente scorsi dietro alcuni arbusti un rifugio. La struttura era in legno scuro, ricoperto da muschio ed alcune ramificazioni di edera. Ma per il resto sembrava proprio in ottimo stato. La porta era bloccata. Mi avvicinai ad una finestra, sbirciando all’interno. L’interno era ordinato, nessuno si era imbattuto in questa baita. Vidi dei pezzi di legno vicino al camino, alcune coperte, dei piatti sul lavabo. Forse qualcuno vi abitava ancora. Bussai sul vetro ed aspettai. Se ci fosse stato qualche vagante, si sarebbe presentato subito. Fortunatamente nessuno si fece vivo. Dovevo spaccare il vetro della finestra. Non avendo niente in cui avvolgere la mano per non ferire le nocche, lo distrussi con un calcio ben piazzato. Gli anfibi non mi deludevano mai. Entrai comunque sospettosa, stringendo il tirapugni. Era possibile che qualche putrido fosse bloccando dietro le altre porte dell’edificio. Aprii lentamente una porta, pronta a scattare se ce ne fosse stato bisogno, ma mi trovai di fronte a due letti singoli, con le coperte accuratamente piegate. Effettivamente all’interno del rifugio tutto sembrava troppo ordinato, oltre al grosso strato di polvere che ricopriva il tutto, vi era poco o nulla fuori posto. Era possibile che qualcuno fosse andato a caccia o in spedizione. L’entrata era chiusa a chiave. Non era un luogo abbandonato. Speravo solamente che si trattasse di brave persone. Sul pavimento vi erano alcuni stracci. Controllai i cassetti di un comodino, curiosa di scoprire qualche informazione sul o sui residenti. Ma niente, erano tutti vuoti. Nell’armadio solo una falena. Cambiai stanza, esaminando il bagno. Molti panni sporchi era stati gettati in un angolo. Sul lavandino vidi poggiato uno spazzolino ed una lama da barba sporca di sangue. L’ultima stanza era un’altra camera da letto ricca di altre brandine, ve ne erano quattro. Ma davano l’idea di non esser mai state utilizzate, a differenza delle due dell’altra camera. Tornai in soggiorno. Sul tavolo vidi un bicchiere. Una sedia spostata. Tutto mi dava l’idea che vi abitasse un solo individuo. Ma era solo un’ipotesi. Nella credenza vi erano molte scorte di cibo. Avrei voluto prendere alcuni barattoli, ma pensai che fosse stato meglio non toccare nulla. Nel caso fosse tornato qualcuno, questo non si sarebbe adirato per esser stato derubato. Meglio iniziare col piede giusto. Poi mi voltai, guardando la finestra. Beh, si sarebbe incazzato comunque. Era meglio farsi trovare pronta. Mi sembrò di udire alcuni passi. Afferrai la glock e mi posizionai alla parete accanto alla porta d’ingresso, in modo da poter puntare subito la pistola alla tempia del tizio che fosse entrato. Sempre se si trattava di un lui. La lama mi aveva fatto pensare ad un uomo, ma poteva essere anche una ragazza. Una chiave scattò lentamente nella serratura. Chiunque fosse stava cercando di non far rumore, pensando di non farsi notare da chi si trovasse all’interno. Peccato che avevo un udito felino. La maniglia si abbassò e la porta si mosse in avanti. Non feci in tempo a vedere la canna di un fucile, che un uomo balzò in avanti. Come immaginato, puntai la pistola alla sua testa. Un cappellino da baseball blu gli copriva parte del volto con la visiera ed essendo di profilo non potevo scorgere bene i suoi lineamenti. La sua stazza era ben pronunciata, un bestione insomma. Cercai di non farmi vedere intimorita. L’uomo portò le mani all’altezza delle spalle, come per arrendersi. Staccai quindi la pistola, facendo qualche passo indietro. Questo si voltò e ci scrutammo. Non appena vidi chiaramente il suo volto, abbassai l’arma ed egli fece lo stesso, riconoscendomi.

    -Guarda un po’ chi si rivede.. - disse fingendo un sorriso - .. non c’è la tua amichetta con la spada?

    L’uomo a cui avevo preso la camicia da boscaiolo mi stava di fronte, vivo e vegeto. Per qualche strana ragione, fui felice di vederlo. Lo avevo conosciuto in un ironico frangente e ci avevo parlato giusto per un’oretta per insegnare a lui e al suo amico come passare inosservati fra i putrefatti, eppure mi dava positività.

    -E il tuo?- chiesi.

    Abbassò lo sguardo, costringendo le labbra in una smorfia. Ciò mi fece comprendere che fosse rimasto solo, era morto. Rinfoderai la pistola, facendogli capire che non volevo guai, ed egli posò il fucile sul tavolo, chiuse la porta, e si gettò sul divano.

    -Sei venuta a sfrattarmi un’altra volta?

    Mi sedetti su una poltrona.

    -No, non ho intenzione di buttarti fuori. Vedo che ti sei sistemato bene..

    Scosse le spalle. Finalmente avevo le chiappe su qualcosa di morbido. Una goduria.

    -Sì, beh.. era di un’altra persona. Un vecchio scorbutico, ma un brav’uomo. Ora sono rimasto solo io. Ma tu.. non avevi un gruppo? – domandò fingendo di non ricordare.

    Le mie dita affondarono nel bracciolo della poltrona, come in preda ad una terribile fitta. Se ne accorse e mi fece cenno di lasciar perdere. Non era più necessaria una risposta. Poi mi guardò meglio, notando le mie condizioni fisiche.

    -Sei conciata parecchio male. Ascolta, non sono uno stronzo.. non fraintendermi. Se hai bisogno di rifocillarti, non c’è problema. Puoi restare. Ma ho giusto le scorte per me, che a fatica ho raccolto. Vorrei che tu poi te ne andassi. Intesi? Un giorno, due massimo.

    Era andata già meglio di quanto pensassi. L’alloggio era tranquillo, il proprietario pure. L’indomani avrei potuto convincerlo a prolungare il soggiorno, se così avessi voluto. In realtà mi andava anche bene passarci un giorno solo, giusto per riprendermi mentalmente e fisicamente. Poi avrei dovuto far chiarezza, organizzarmi sul futuro.

    -Mi va più che bene, non c’è bisogno di giustificarsi.

    Mi tese la mano.

    -Comunque sono Drake, l’altra volta non ci siamo presentati.. mi sei sembrata più interessata alla camicia.

    Sorrisi, sorrisi nonostante l’orrore che avevo dentro. Quel viso conosciuto mi aveva risollevato temporaneamente.

    -Kendra..beh, purtroppo non è durata molto.





    *






    L’acqua gelida della doccia giovò al mio corpo. Fu come destarsi da un lungo sogno, un incubo ad esser precisi. Il vecchio proprietario aveva maneggiato qualche tubo ed era riuscito a collegare la casa ad una sorgente qui vicina, di più Drake non aveva saputo dirmi. Il sangue di zombie si scrostò più facilmente, l’acqua fredda è il rimedio adatto per le macchie di sangue. Levai via quella sporcizia, quei fluidi corporei altrui. Sul bordo della vasca c’era addirittura una saponetta, ma non mi passò in mente nemmeno per un secondo l’idea di utilizzarla. Avevo ancora riguardo per la mia igiene, sebbene sembrasse ironico. Fu un sollievo lavarsi. Fu come gettare tutte quelle immagini giù nello scarico, fu come buttarsi alle spalle quel passato ancora fresco. La polvere, il dolore, la morte. Tutto. Tutto finiva in un vortice, in uno scarico di una vasca, in uno chalet, in una fottuta radura del cazzo. Incrociai le braccia, poggiando le mani sulle spalle. Chiusi gli occhi. Quelle gelide gocce d’acqua scendevano sinuose lungo il mio corpo, ricordandomi di essere ancora viva. Io c’ero ancora in quella merda di mondo. In un modo o nell’altro ero sopravvissuta e dovevo continuare a farlo. Pensai a Drake. Era un brav’uomo anch’egli. Forse non aveva voluto mostrarsi fin troppo gentile, ma ero sicura che ad gli dispiacesse avermi detto quelle cose. Non credo che avesse davvero voluto buttarmi fuori, ma doveva comunque mostrarsi con un certo rigore. Mi rinvolsi in un asciugamano abbastanza preciso da coprirmi il necessario. Ora che la ferita era pulita, potevo estrarre il proiettile. Scavai in quel foro con la punta della lama di un coltello, digrignando i denti. Il bossolo cadde a terra. Tamponai la ferita con uno straccio. Avrei dovuto metterci un po’ di resina. Mi guardai allo specchio. Avevo una faccia terribile. Si vedeva lontano un miglio che ero sconvolta. Non ero più brava come una volta a nascondere le mie emozioni. Strano. Dicono che situazioni del genere aiutano a formare un carattere forte. Io, invece, stavo andando in frantumi. La porta del bagno si spalancò di colpo, facendomi sussultare. Drake aveva di nuovo il fucile in mano.

    -Sapevo che non c’era da fidarsi! – gridò.

    Era agitato, incredulo. Non capivo cosa fosse successo. Poi, d’un tratto, il mio cervello elaborò la causa.

    -Sei un’assassina psicopatica!

    -Abbassa quell’arma, ti posso spiegare. – intimai.

    Lui avanzò, poggiandomi la canna del fucile al petto. In un’altra situazione sarei stata in imbarazzo. Quell’asciugamano era troppo corto per i miei gusti, ma in quel momento ero più occupata a pensare come tranquillizzare il tizio.

    -Drake, ti prego.. ascoltami. Non è come sembra, io..

    Ma l’orso interruppe, continuando ad urlarmi contro.

    -C’è una cazzo di testa nel tuo zaino! Non è come sembra?! E’ proprio come sembra, cazzo! Quale persona sana di mente se ne andrebbe a giro con una cazzo di testa?

    Aveva tutte le ragioni del mondo a reagire così, non suonava molto bene la cosa, effettivamente.

    -Non sono un’assassina, tantomeno una psicopatica. Quello.. la testa era.. – non riuscivo a trovare le parole, la voce iniziò a tremolare, vacillando fra i ricordi di quella terribile scena – Hershel, era un amico.. era una persona speciale. Non meritava la fine che ha fatto. Sono scappata e ho portato la testa con me.. volevo dargli un funerale.. seppellirlo una volta trovato un luogo lontano e sicuro.

    Il suo sguardo si addolcì, spegnendo le fiamme. Sollevò il fucile, massaggiandosi il collo. Si sentiva in colpa ed in imbarazzo. Non aggiunse altro. Se ne uscì, chiudendo la porta. Mi venne spontaneo tirare un sospiro di sollievo, sedendomi sul bordo della vasca. L’avevo vista brutta. Mi vestii velocemente, indossando alcuni abiti che quel furioso mi aveva prestato. Ero inguardabile. Pantaloni da uomo con cavallo basso, una T- shirt abnorme. Sembravo un rapper squattrinato. Ma almeno avrei potuto lavare i miei vestiti. Li misi in ammollo per un poco e poi strusciai forte, cercando di eliminare qualsiasi tipo di residuo. Dalla finestra filtravano i raggi bollenti del sole. Con quel caldo afoso si sarebbero asciutti in un baleno. Aprii la persiana e poggiai gli abiti su di un ramo che si ramificava proprio nelle vicinanze della finestra, fungendo da stendino. Giunta in soggiorno, vidi lo zaino aperto e Drake sulla porta d’ingresso. In mano aveva una straccio grigio. Aveva rinvolto la testa di Hershel. Mi indicò con lo sguardo una pala appoggiata al divano. L’afferrai senza proferire parola ed uscimmo fuori. Camminammo per dieci minuti, finchè non giungemmo ad uno spiazzo meraviglioso. Un campo ricoperto di fiori gialli e viola. Il loro profumo delicato si avvertiva nell’aria. Visioni banali come queste, in quel mondo regalavano emozioni più profonde. Si apprezzava maggiormente ogni cosa, ogni aspetto della vita. Guardai Drake, incredula. Avevo capito fin dal primo istante in cui l’avevo visto in quella farmacia che era una brava persona, ma mai avrei creduto così empatico ed emotivo. Lì era perfetto. Non ero religiosa, ma volevo credere che l’anima di Hershel potesse apprezzare. Probabilmente non avrebbe fatto differenza alcuna se l’avessi lasciata alla prigione, ma il mio cuore mi aveva fatto agire così. Era stata un’azione spontanea, non pensata. Affondai nel terreno quella pala d’acciaio, scavando una piccola fossa. Nel frattempo Drake aveva costruito una croce con due rametti, tenendoli legati con dello spago da cucina. Mi persi in un monologo interiore, ricordando le gesta di quell’uomo, le poche che avevo potuto vedere, ma che erano bastate a farmi capire quali virtù avesse. Guardai per un’ultima volta quei bianchi lucenti capelli, poi ricoprii di terra la fossa, versando qualche lacrima in silenzio. Riposa in pace.
     
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